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PS: se proprio insisti

13 dicembre 2011 2 13 /12 /dicembre /2011 23:10

Si scrive molto sul razzismo, sin da quando si è bambini. Il compito sui banchi di scuola, l'educazione civica, la storia, i nostri familiari... Ma il tema è sempre trattato male e con superficialità. L'identificazione di una razza, nel 2011, è, a parer mio, un'idea obsoleta e priva di senso, eppur, molto radicata nelle menti degli xenofobi.

Tutto parte da una concezione mentale di protezione rispetto a chi è estraneo.

È innegabile che oggi, molto più di prima, l’Italia (in generale possiamo dire il mondo intero) sia protagonista del fenomeno dell’immigrazione; ma perché diciamo che, oggi più di prima, questo fenomeno ha assunto connotati fortemente allarmistici?

Primo per le condizioni in cui versano i paesi del terzo/quarto mondo e secondo anche perché viviamo in una società dominata dalla Globalizzazione.

Quando una persona sceglie di raggiungere un posto nuovo in condizioni precarie, e anche a costo della propria vita, lo fa perché ha necessità primarie. L’immigrato, proprio come i nostri nonni, padri o persino noi stessi, cerca di migliorare le proprie condizioni di vita dettate da una società così “evoluta” che riesce a consentire che ogni 3 secondi muoia un bambino di fame. Se si sta in strada tutto il giorno, se si vive con un panino, se si vive chiedendo l’elemosina in mezzo ad una strada, se si vive ammassati in una casa, se si vive senza lavarsi per giorni, non è sempre demerito dell’essere umano in questione, ma probabilmente di chi sta meglio e non è mai disposto ad aiutare un suo simile che solo per una questione di nascita non ha avuto le stesse possibilità degli altri. Odiare un “fratello” solo per il colore della pelle o per il taglio degli occhi, poi, denota forti complessi e disagi psicologici.

Bisogna studiare il fenomeno per comprendere la natura delle idee.

Cosa vuol dire realmente globalizzazione?

La maggioranza di noi collega il termine con mass media, internet, tecnologie avanzate e tanto altro. Certamente possiamo dire che questi sono tutti aspetti che si inseriscono nel macro ambito del fenomeno globalizzazione, ma non è questo il vero significato.

Globalizzazione significa abbattimento delle frontiere e di quello che prima poteva sembrare un muro e cioè tempo e spazio.

“Tempo e spazio” sono oggi azzerati, non creano più un limite alla comunicazione, allo scambio e non riguarda solo il fattore economico, che per primo viene collegato al termine, ma investe tutti gli aspetti della nostra società quali la comunicazione, la cultura, la religione ecc.

Globalizzazione vuol dire anche abbattimento dei confini nazionali e, come diretta conseguenza, crisi della dimensione locale e, ancora, crisi di identità, crisi dei sistemi valoriali (che per primi formano il connotato di una società). Proprio per questo, al termine globalizzazione si affianca il termine “flusso”: flusso di persone e con esse flusso di informazione, di cultura, di capitale; tutto ciò crea il Non Luogo, cioè quegli ambienti sociali che non hanno uno spazio terrestre ben definito e che non hanno limitazioni.

In tutta questa spiegazione possiamo ricollegarci al problema dell’immigrazione che è proprio un aspetto della globalizzazione.

L’immigrazione non è un fenomeno nuovo, anzi è un fenomeno ciclico che si ripete regolarmente e, purtroppo, il ritratto fornito dai mass media negli ultimi 20 anni è quello che maggiormente ha contribuito a formare l’opinione pubblica: un ritratto sostanzialmente distorto e fuori dalla realtà, che porta a confondere la quotidianità che oggi ci può essere nella presenza straniera nel nostro Paese, come un fattore deviante ed eccezionale. Sta proprio qui l’incoerenza che domina la nostra società: una società che si professa come aperta, moderna, multiculturale, ma che poi tende a delineare l’immigrato come un essere deviante, una figura “borderline” cioè fuori dal confine perché, nonostante tutto, si tende sempre a delineare le linee di confine tra “dentro” e “fuori”, e non solo da un punto di vista geografico, ma anche e soprattutto da un punto di vista culturale, ed è frequente anzi possiamo dire generalizzato, collocare l’immigrato fuori dai nostri confini.

L’immigrato trova oggi numerosi altri termini che con esso si interscambiano e sono: straniero, estraneo.

Strano, diverso, criminale, sono tutte figure stereotipate che permettono di riconoscere il mondo, di renderlo comprensibile distinguendo ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ciò che è normale da ciò che non lo è e ciò che è familiare da ciò che è straniero.

Ecco che entra, a questo punto, in gioco anche il concetto di responsabilità sociale dei media nella società dell’informazione e della conoscenza che si dovrebbe tradurre in una capacità di rappresentare e raccontare il cambiamento sociale, e anche di “ sdrammatizzarlo” e rendere quindi più familiare la presenza di migranti nel nostro Paese.

Ma non è proprio così che invece si comportano i media: al contrario sono stati questi ultimi a favorire la “cristallizzazione dello stereotipo” e quindi generalizzare quei sentimenti di ansia, paura, chiusura, rifiuto e spesso anche razzismo rivolto agli immigrati.

Le parole chiave con le quali i media ci pongono giornalmente il fenomeno sono “criminalità”, “sbarchi”, “maree o flussi di immigrati” e ciò ha generato una concezione del pubblico audio-visivo che considera gli immigrati come “troppi e irregolari”.

Si tratta di immigrati che pur vivendo magari regolarmente in Italia, sono costantemente soggetti al pregiudizio che i media hanno contribuito a formare nella mente di noi spettatori, e che porta come conseguenza anche ad un totale disinteressamento della loro cultura, religione.

Tutto ciò si può riassumere in un triangolo, quello cioè “criminalità, clandestinità, arrivi”: i tre termini che più vengono accostati e quindi ascoltati quando si parla di immigrazione e che hanno favorito il nascere di quella tendenza generalizzata e stereotipata di accostare al termine “migrante” il termine “clandestino”. Ciò è ravvisabile anche dal fatto che il termine immigrazione a livello di scrittura giornalistica o di notizia televisiva è riportata nell’ambito della “Cronaca”, dando maggiore prevalenza ad episodi di criminalità e violenza che coinvolgono, sia come protagonisti che come vittime, gli appartenenti a minoranze etniche, favorendo di conseguenza un’interpretazione quasi univoca, abbastanza razzista e fortemente stereotipata del soggetto immigrato.

Tuttavia non possiamo però totalmente attribuire tutta la responsabilità ai media anche se il loro contributo è stato enorme.

I fatti di Torino e di Firenze di questi giorni ci dimostrano quanto sia importante l'argomento e spesso sottovalutato.

Vi è la necessità di ritrovare la scala valoriale che si stava formando fino a poco tempo fa.

In situazione di crisi economica vi sono condizioni psicologiche per le quali le nostre idee subiscono un forte scossone facendole regredire verso una situazione istintiva di protezione: poco ci differiamo dall'animale che vedendo un'identità estranea sul suo territorio tende ad essere diffidente ed ostile. Tutti gli esseri umani che si trovano in condizioni negative rispetto ad una determinata situazione tendono a creare un sentimento di avversione generalizzato a tutto ciò che il cervello riesce a collegare a quella precedente situazione.

Esistendo una base "ben formata", per diventare razzisti basta una banale discussione o un'immagine distorta che sovrapponendosi agli stereotipi offerti dalla società devia il nostro modo di vedere le cose: è necessario, oggi come non mai, mantenere saldi gli ideali che abbiamo ereditato dai nostri “saggi avi” in modo da riportare l'equilibrio necessario affinchè si possa aprire agli stranieri come loro hanno fatto con tutti gli Italiani.

In tutto il novecento ci sono state ingenti emigrazioni verso i paesi esteri per dare un aiuto alla famiglia e riuscire a dare un futuro ai propri figli: pensiamoci in una situazione di sconforto e senza cibo per riuscire a comprendere lo stato d’animo di chi viene in Italia.

Come in tutto il resto vi è anche un altro lato della medaglia. Non tutti vengono per lavorare e non tutti sono onesti.

Viene però da chiedersi se anche noi  abbiamo avuto e abbiamo “cattivi esempi” fra i nostri “conterranei”…???

Eppure, la maggior parte di noi lavora dignitosamente per portare lo stipendio a casa, non possiede armi, non chiede il pizzo e non ha mai ucciso nessuno.

Effettivamente nel mondo ci conoscono per gli spaghetti, la pizza, la mafia e la politica corrotta… a parte le prime due, non avrebbero, anche gli stranieri, dei motivi per essere razzisti nei nostri confronti?


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